Grazia Deledda e il monte

«Sopra la piccola città, che già era a seicento metri sul livello del mare, sulla cima del Monte sovrastante, fra boschi di lecci e rocce di granito, poco distante dalla proprietà della famiglia di Cosima (nota 12) e dove per la prima volta ella aveva veduto il mare lontano, sorgeva una piccola chiesa detta appunto della Madonna del Monte, su uno spiazzo sollevato e recinto di massi.

Piccole stanze erano addossate alla chiesa, sotto lo stesso tetto, ed una specie di portichetto si apriva davanti alle due porte, una a mezzodì e l’altra a ponente, con sedili in muratura tutto intorno.
Nelle stanzette dimoravano i fedeli, durante il periodo della novena e della festa della piccola Madonna.
La leggenda raccontava che un vescovo, forse di Pisa, nel viaggiare per la sua visita pastorale nell’Isola, colto da tempesta, aveva’promesso se il naviglio si salvava, di erigere un santuario sulla prima cima di montagna apparsa all’orizzonte.
E immediatamente il mare si era calmato, e una cima rocciosa era emersa fra le nuvole sopra l’isola.
Lo zio di Cosima, il tabaccoso prete Ignazio, che aveva una parrucca rossa con la chierica, fungeva da capellano della chiesetta. La sorella Paola lo accompagnava: avevano per loro uso, oltre la piccola sagrestia una stanzetta pulita per il prete, con una branda e il materasso, e una vasta grezza stanza col pavimento sterrato e tanti piuoli fissi al muro per attaccarvi le robe.
In questo davvero primitivo ambiente, che aveva della capanna e della caverna, e riceveva luce solo dalla porticina aperta sul bosco, Cosima quell’anno, poiché la zia Paola l’aveva invitata con le sorelle a passare con lei il tempo della novena, passò i giorni più belli della sua vita.

Fu proprio un sogno, bello, completo, pieno di cose misteriose, come i veri sogni.
Il viaggio, circa due ore di salita per un sentiero appena tracciato fra i dirupi, gli avvallamenti, il bosco, fu fatto a piedi dalle ragazze pazzamente felici ed ebbre di quella meravigliosa mattina di agosto, mentre un carro tirato da buoi e carico di masserizie e provviste, le seguiva traballando sui sassi e gli sterpi.
La prima sosta, breve, fatta non per stanchezza ma per divertimento, fu al cominciare del bosco fitto, sotto una strana pietra poggiata su altre e detta la «tomba del gigante» (nota 13).
Sembrava una grande bara, di granito, coperta da un drappo di musco, solenne nella vasta solitudine del luogo.
Un tempo, diceva la leggenda, i giganti abitavano la montagna: uno di essi, a turno, vigilava l’ingresso della foresta; e uno di essi, l’ultimo, si stese per morire sulla pietra di confine, che si richiuse su di lui e ancora custodisce il suo corpo.
Era davvero, quello, l’ingresso al mondo degli eroi, di quelli che non possono concepire pensieri meschini; e Cosima toccò il masso, come in altri luoghi, pervasi di leggende sacre, si tocca la pietra dove queste affermano si sia riposato qualche santo.
Il sogno confuso della fanciulla era già illuminato da un desiderio, oltre che di purezza, di cose grandi, al di sopra delle difficoltà quotidiane: e le sembrava davvero, riprendendo a salire il sentiero tra le felci e le chine già morbide di capelvenere e di sottilissime erbe di montagna, all’ombra dei grandi elei patriarcali, di evadere dal suo piccolo mondo e ritrovarsi fra i giganti che vivono rasente al cielo, compagni di venti, del sole e degli astri.

Una seconda tappa fu la sorgente d’acqua pura e luminosa come il diamante, che scaturiva in una piccola conca di pietre e si spandeva modesta e quasi furtiva fra l’erba calpestata e fangosa, in un cerchio di lecci qua e là arrampicati sulle cime azzurre. Già si sentiva il grido delle ghiandaie, e l’aria sembrava un liquore profumato di menta.
Le ragazze si inginocchiarono sulla pietra e si protesero a bere nella fontana: e nel piccolo specchio d’onice dell’acqua in ombra, Cosima vide i suoi occhi, che le parvero della stessa miracolosa luce: luce che scaturiva dalla profondità della sua terra e aveva un giorno riflesso davvero l’anima assetata di divinità dei suoi avi pastori e poeti.
La realtà avrebbe dovuto consistere nell’abitazione che, simile alla capanna di fanciulle che anelavano allo spazio del mondo lontano, alle città affollate e rumorose.

E le sorelle di Cosima si rivoltarono, sul principio, nel vedere che il giaciglio, in comune con la zia Paola, era steso per terra, fatto di uno strato di felci, di coperte, cuscini e grosse lenzuola: che gli armadi consistevano nei piuoli e, per lavarsi, c’era in un angolo, su una panchina di pietra, accanto alla brocca per bere, un vaso di creta; e per ribellarsi, ma anche per divertirsi, cominciarono a rotolare sul giaciglio, scovarono la parrucca dello zio Ignazio, che stava nella stanzetta accanto, e ne fecero scempio.
Ma poi uscirono nel bosco e si confortarono con lo sforzo del meraviglioso luogo pieno di recessi, di divani coperti di musco, di quadri e broccati mai visti uguali, dei quali erano ricchi gli sfondi.
Solo Cosima non si era disillusa; anzi l’interno dell’abitazione, col suo odore di umido e di felci, coi suoi arnesi trogloditi, con quella porticina coperta dalla tenda verdone del bosco, quei sedili di pietra grezza, quell’anfora di creta e i recipienti pastorali fatti di sughero e di corno, le diedero uno strano senso di ricordanze remote, come quello che provava da bambina incosciente nel veder apparire la piccola nonna materna — quella nonnina che partecipava della natura delle fate nane della tradizione locale, che abitavano nelle casette di granito in mezzo ai monti e agli altopiani rocciosi —; e prima di raggiungere le sorelle si diede da fare per rendere più abitabile la primordiale dimora.

Cominciò con l’appendere i pochi vestiti suoi e delle sorelle ai piuoli, coprendoli con uno scialle per preservarli dalla polvere e dalla curiosità degli estranei; stese davanti al giaciglio, dalla parte dove avrebbero dormito loro, a mo’ di tappeto, un lungo sacco di lana che invero ne aveva lo spessore; nascose le scarpe in un cestino, e infine, con un piccolo specchio e una menso- letta che aveva previdentemente portato da casa sua, preparò la toeletta.
Intanto, fuori, il servo di zia Paola costruiva una capanna di frasche, abbastanza larga e alta, che doveva servire da cucina.
Avevano portato un fornello a mano e un sacco di carbone; ma la serva volle dietro la capanna, in un angolo riparato, una specie di focolare di pietre e dichiarò che avrebbe cucinato col fuoco di legna.
E queste non mancavano davvero, a portata di mano, pronte ad accendersi come torce.
Anche alcune sedie e un tavolo erano stati portati sul carro; e il tavolo avrebbe dovuto servire per i pasti e per scrittoio a Cosima.
Oh, e ben il calamaio ella aveva portato, avvolto in uno straccio nero e ficcato dentro una scarpa perché nel transito non si rovesciasse; e trovò anche, nella primordiale dimora, una specie di nicchia, che avrebbe dovuto servire per qualche lumino e qualche immagine sacra, e della quale, invece, ella si servì per deporvi il calamaio, la penna, il suo scartafaccio e alcuni libri, formandosene così un altarino per i suoi misteri d’arte.

Poi raggiunse le sorelle nel bosco; e furono ora e poi giorni di appassionata gioia; non fu tutto un sogno?
Ma uno di quei sogni che bastano a illuminare una vita, anche negli angoli più ombrosi, come il sole e la luna illuminavano, in quei favolosi giorni di agosto, la boscaglia di elei intorno alla miracolosa chiesetta.
Che importava l’umiltà e la rozza accoglienza della capanna?
Serviva di rifugio solo alla notte, e per Cosima nelle ore delle sue scritture; il rumorio del bosco la copriva col suo suono di organo, e la luna col suo drappo d’argento.
E le ragazze dormivano cullate da quella musica che non aveva l’eguale poiché era la musica della fanciullezza che risuona una sola volta nella vita.

Ma per Cosima era qualche cosa di più grande e trepido; era tutta una rete di mistero, uno svolgersi di cose sorprendenti, come s’ella galleggiasse in un fondo oceanico, circondata, non dal selvaggio bosco di elei e dalle rocce fantastiche, ma da tutte le meraviglie delle foreste sottomarine.
E tutto questo, oltre la reale dolcezza del soggiorno, allietato dalla libertà e dallo spazio del luogo, dalla bellezza del paesaggio e delle lontananze e dai semplici svaghi della poca gente che dimorava intorno alla chiesetta, dipendeva dalla presenza, in una delle stanze dalla parte opposta di quelle del capellano, della famiglia di Antonino.
Egli non c’era, ma doveva pure qualche giorno venirci, come tutti gli altri giovani della città, che anche se i loro parenti non erano quassù, combinavano gite e passavano anche la notte nel luogo incantato, accendendo grandi fuochi, combinando cene e balli, bivaccando sotto gli alberi e facendo la corte alle ragazze».

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