L'Ortobene di G.Deledda da "Il vecchio della montagna"

Da “Il vecchio della montagna” di Grazia Deledda

Dal capitolo I

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Dopo le chine s’aprirono silenziose radure, circondate d’alberi che si slanciavano sui limpidi sfondi. Qua e là le roccie accavalcate parevano enormi sfingi; alcuni blocchi servivano da piedestalli a strani colossi, a statue mostruose appena abbozzate da artisti giganti; altri davano l’idea di are, di idoli immani, di simulacri di tombe dove la fantasia popolare racchiude appunto quei ciclopi che in epoche ignote sovrapposero forse le roccie dell’Orthobene, traforandole nelle cime con nicchie ed occhi, attraverso cui ride il cielo.

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In quel versante l’Orthobene guardava l’oriente, chiuso dalle azzurre montagne della costa, fra le quali intravedevasi il mare, confuso col cielo in una zona grigio-perla. Terre solitarie e ondulate si stendevano ai piedi della montagna; e lassù, intorno all’ovile, l’Orthobene era tutto un incanto di roccie, di boschi e di radure. La capanna sorgeva in uno spiazzo dal libero orizzonte: il sentiero che là conduceva, insinuavasi nel bosco, rasentava precipizi, chine coperte d’erba bionda, scendeva e saliva per scalinate, antri, archi di granito. Il musco copriva i tronchi e le pietre; l’edera, sugli alti crepacci abbandonava i suoi ciuffi alle carezze del vento.
Nella radura intorno alla mandria sorgeva un solo elce: davanti, l’orizzonte: dietro, il bosco; a destra e a sinistra, enormi roccie sovrapposte, forate in alto da occhi che per lo sfondo del cielo sembravano azzurri, e più giù da nicchie inghirlandate d’edera, e dalle quali pareva fossero scomparsi idoli antichi. Qualche roccia si slanciava sottile come un obelisco; altre giacevano su enormi piedistalli, come sarcofaghi coperti da drappi di musco verde. E tutte le cose, alberi, roccie, macchie, in quel luogo di solitudine, parevano immerse nella contemplazione dei solenni orizzonti.

Dal capitolo VI

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Il bosco taceva, tacevano le campanelle delle capre meriggianti; il cielo era quasi fosco per i caldi vapori che salivano dal mare. In quelle ore di immobilità ardente le foglie degli elci avevano bagliori d’acciaio brunito, l’orizzonte sembrava coperto di cenere azzurrognola, e le erbe bionde così molli e lucenti nei dì sereni, pungevano come fili metallici.
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Fuori l’orizzonte aveva preso una calda tinta violetta venata di rosso; e in quel melanconico veto di viola la luna nuova calava rossa come un doppio corno di corallo. Quel giorno doveva essere stato ardentissimo nel piano, se tanti caldi vapori si adunavano sull’orizzonte, ma sull’Orthobene, sebbene il bosco tacesse immobile nel silenzio rosso della sera, l’aria aveva solo un tepore gradevole, una ineffabile pace di sogno. E in quella pace e in quel sogno, attraverso il bosco e le roccie che sembravano assorte nella contemplazione dei grandi orizzonti e del novilunio vermiglio, la gente se ne andò ad accendere l’ultimo falò sulle creste donde si scorgeva Nuoro lontana.
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E giù le valli dormivano nell’ombra; Nuoro biancheggiava nel crepuscolo, ed altri borghi lontani apparivano come greggi dormenti, nei paesaggi cinerei: le montagne dell’orizzonte s’ergevano come un immensa muraglia di bronzo, su quell’ardore di cielo che verso est e nord s’illanguidiva in vaporosità di perla.

Dal capitolo IX

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Più tardi cominciò a nevicare, fittamente, a falde lunghe e larghe che pareano petali di fior di mandorlo. Le montagne della costa sparvero tutte sotto la curva bianca dell’orizzonte; le roccie, i cespugli, il bosco, la capanna, l’elce della radura e le mandrie ricevevano in silenzio la neve continua, fitta, infinita;……
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E la neve cadeva sempre, in linee leggermente oblique, eguali, incessanti, silenziose, su uno sfondo vaporoso e candido. Ora le falde eran lunghe e sottili, simili a petali di crisantemi e di margherite, a bioccoli di bambagia, a peluria delicatissima di candidi uccelli: e si ammucchiavano sulle roccie, sul terreno, sulle piante. Ogni foglia d’elce riceveva la neve come una piccola mano aperta verso il cielo, e si copriva, s’allargava, si marmorizzava, assumendo informi contorni che si fondevano coi contorni delle altre foglie: ogni fuscello s’ingrossava lentamente trasformandosi in una verga d’alabastro; e sui cespugli e sulle rupi si stendevano drappi di velluto candido, sull’edera irregolari filograne di madreperla, sul terreno strati di piume di cigno.
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Sotto la luce triste dell’alba il bosco sembrava una misteriosa accolta di fantasmi.
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La neve, come avviene nel Nuorese, durò poco. Dapprima una forte pioggia, di cui ogni goccia scavava un buco nella neve già sotto corrosa, poi il vento detto dai Nuoresi pappa nie (mangia neve [*]) spazzarono la valle e la montagna. Dal bosco la neve cadde a mucchi, e solo qua e là sui più grossi rami ne rimase un po’, cristallizzata dal gelo. Un giorno, dopo il lungo vaporar triste degli orizzonti, apparve il sole, e il cielo s’incurvò come uno specchio di lucida turchese sui nitidi profili marmorei, sulle lame brillanti delle montagne lontane. I ghiacciuoli di cristallo pendenti dai rami e la neve sulle roccie sprizzarono scintille iridate; la sottile erba invernale, su cui la brina stendeva le sue filograne, brillò anch’essa, smeraldina;

* scirocco

Dal capitolo X

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Tornò la primavera. L’erba cresceva foltissima sui pianori, le siepi fiorite di biancospino parevano ancora coperte di neve; sotto il bosco si sentiva l’umida fragranza dei ciclamini, delle viole e dei mughetti, e fin dentro la capanna arrivava il profumo del musco fiorito. Da ogni roccia sgorgava un ruscelletto;……
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Il musco copriva le roccie con la sua fioritura carnosa e vermiglia: la ginestra indorava i ciglioni: fiorì l’asfodelo, fiorì tutto il bosco, cangiando in pari tempo le foglie.
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E apocalittiche visioni erano al di fuori, nelle mostruose volute delle nuvole correnti sul cielo: il caos pareva fumasse all’orizzonte; dall’immenso crogiuolo del mare vaporavano nebbie che salivano senza tregua, incontrandosi con le nebbie della montagna; e in quel velario or grigio e diafano, or fumoso e fosco le roccie e gli alberi apparivano e sparivano in chimeriche fantasmagorie. Nelle lunghe notti, se sopravveniva un po’ di calma, e la luna invernale passava come un grand’occhio velato di lagrime attraverso la nebbia e i cirri volteggianti delle nuvole, un sovrumano incanto di tristezza e di sublime desolazione regnava lassù. S’udiva lo scroscio dei torrenti, e quel roteare di acque sul granito riempiva la notte d’arcane armonie. Pareva che al di sopra dei boschi addormentati, le cui ghiande castanee nelle loro piccole coppe filogranate luccicavano come perle alla luna, passasse il cocchio della Dea della notte e della solitudine.
……
Il crepuscolo invernale era freddo e luminoso; la luna piena sorgeva dall’Orthobene, sospesa come un’enorme perla sul tenero azzurro del cielo, e spandeva un riflesso d’acqua sul lastrico bagnato del Corso.
……
benché il profilo del monte Orthobene, lì davanti, gli ricordasse il padre che lo attendeva.

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