Novella "Sotto il Pino"

La località prendeva nome da questo pino solitario, superstite forse di antichissime foreste che neppure la tradizione ricordava: tanto più straordinario, oltre che per la sua grande altezza e il volume dei suoi rami potenti, per la sua quasi miracolosa vita in quell’estensione di pianure onduleggianti quasi selvagge ed aride, prive di ogni altra vegetazione. Vi allignavano solo i fichi, bassi, tozzi, grossi, con certi tronchi e rami biancastri che parevano membra di giganti storpi ripiegati sulla loro sconfitta: e anche la vite, che un volonteroso agricoltore aveva tentato di piantare su certe distese volte ad oriente verso le lontananze dei monti, ma che dava un vinetto chiaro, aspro, stentato.

Eppure venne un uomo d’oltre mare, e credo fosse un coatto, condannato per non so quale colpa che doveva essere involontaria, perchè bastava guardarlo negli occhi celesti attoniti in un viso pallido e liscio come quello di una donna, per aver fiducia in lui. Ed in lui ebbe piena fiducia il buon agricoltore che aveva coraggiosamente piantato la vigna nella desolata landa, appena l’uomo si presentò per chiedere lavoro.

— Va nella località detta Il pino, e guarda se c’è qualche cosa da fare.

L’uomo andò: tornò che sembrava un altro, con gli occhi che pareva avessero preso un po’ dell’azzurro vivido e scintillante sopra il pino. Disse:

— Tutto c’è da fare: poichè c’è un tesoro nascosto fra le pietre sotto la muriccia di cinta.

E come l’altro lo guardava come si guardano gli idioti, aggiunse:

— C’è l’acqua.

 

Si chiamava Arcangelo. E come un arcangelo, a poco a poco egli mutò il luogo in un piccolo paradiso terrestre. Scavò fra le pietre, fece una vasca ove l’acqua si raccoglieva lentamente, sì, ma bastevole per alimentare un orto che egli piantò coi quadrati bordati di fiori. Cose mai vedute.

Quando si andò a vederle, fu una festa, per noi fanciulle, selvatiche, sì, come il luogo prima che arrivasse Arcangelo, ma anche con naturali disposizioni ad essere, come il luogo, ingentilite e coltivate. E l’anima nostra rassomigliava al pino, altissimo e amico del cielo, delle nuvole, degli uccelli, dei colori orientali dell’orizzonte: il pino che sovrastava ogni cosa intorno, e pareva più alto dei monti lontani, e viveva per conto suo, sopra la piccola eppure grande fatica dell’uomo esiliato, senza badare ai cavoli e ai fiori; solo e potente con le sue calme, i suoi mormorii, le sue rabbie oceaniche quando lottava contro i venti e ne vinceva il rumore.

Venne un giorno in cui Arcangelo scontò la sua condanna: ma quando gli fu domandato se ripartiva, si sollevò sulla fedele vanga e disse, accennando il pino:

— Se mi sarà permesso costruirò là sotto una tettoia per passarci la notte, adesso che non dovrò più tutte le sere presentarmi alla polizia e chiudermi in uno stambugio vigilato dalla ronda: questa sarà la mia partenza.

Gli fu dato il permesso di costruire la tettoia: le pietre non mancavano; mancava il legname; e del pino non si doveva toccare una fronda: ma egli fabbricò mattoni e tegole, col fango impastato e cotto da lui con un suo speciale segreto; e andò lontano in cerca di canne, e di giunchi, coi quali, intessute solide stuoie, ricoprì il tetto della primitiva costruzione.

Un giorno, in ottobre, si andò a vedere questa nuova meraviglia. E meraviglia era, per averla fabbricata con le sue sole mani e l’aiuto della natura, un uomo debole, già quasi vecchio, che si nutriva di sole erbe come un eremita. Non una tettoia, ma una vera casa egli aveva costruito: due camere, con finestre, porte, focolare, giaciglio, sedili.

Di sedili aveva provveduto anche lo spiazzo davanti rinforzato da una cintura di sassi nelle cui incavature aveva piantato, come in vasi naturali, piantine di rose selvatiche e felci e prunalbi. Anche intorno al pino si ripeteva la stessa decorazione; e sul rialto rotondo cresceva l’erba, e in mezzo all’erba e agli aghi dorati che cadevano dalla pianta, pareva si posassero strani uccelli, alcuni con le ali verdognole chiuse, altri con le ali scure aperte; erano le pigne, che egli aveva lasciato sul posto per miglior sorpresa e gioia delle sue piccole padrone.

Fu dunque una nuova festa; tanto più che sui fichi protervi c’era ancora qualche frutto, la cui polpa granulosa ricordava il sapore del tamarindo, e nella vigna da poco vendemmiata, maturava qualche tardivo grappolino che pareva d’uva spina.

La giornata era calda, fin troppo calda, e d’un tratto una nuvola nera venata di rosso stese dietro il pino uno sfondo apocalittico. Si levò il vento, caddero le pigne, e di alcune, già spaccate, coi pignuoli vennero giù, in fraterna allegria, grossi goccioloni e chicchi di grandine.

Per le fanciulle e i bambini la festa poteva essere completa; e, infatti, sullo spiazzo sotto il pino fu subito intrecciata una danza come di lepri alla luna: salti, sberleffi, spintoni, agili ripiegamenti e gridi di gioia: e per un po’ l’albero parve compiacersene, dalla sua altezza gigantesca, come un avo protettore si gode i giuochi dei pronipoti; ma poi, d’improvviso, parve ricordarsi la sua austera dignità: e i suoi rami si contorsero, come invasi da innumerevoli biscie, e sibilarono, frustandosi col vento che anch’esso, quasi profittando malignamente della prima distrazione dell’albero, s’era fatto di una violenza inaudita.

Ci si salvò a stento nella casetta, e Arcangelo, pallido e spaventato, accese il fuoco per asciugare i nostri vestiti.

Per fortuna l’acquazzone veniva da nord, batteva contro il pino e contro il muro posteriore della casa, scorrendo poi ai lati del rialto, in due scanalature che il previdente colono aveva scavate l’inverno prima: in breve l’ortaglia fu allagata, fece una cosa sola con la vasca, e il rumore dell’albero e del vento diedero l’impressione di una burrasca marina.

Bisogna dire che una certa tremarella cominciò ad impossessarsi anche delle più coraggiose di noi: e il contegno incerto e spaurito di Arcangelo non era adatto a dissipare il terrore del momento; tanto più che egli non voleva aprire la seconda stanzetta del rifugio, con la scusa di aver perduto la chiave.

Che cosa nascondeva egli nella seconda stanzetta? Forse un malvivente, di quelli che non mancavano di bazzicare nei luoghi, come quello, poco frequentati; o magari una donna?

Nonostante tutte le prove di attaccamento e di fedeltà di cui egli era già stato prodigo, un certo alone di sospetto rimaneva intorno a lui: l’uomo non si libera mai completamente dell’ombra di una colpa commessa; e la sua era tanto più indimenticabile quanto meno conosciuta. E poi quella voce implacabile del pino, che pareva raccontasse tante cose terribili e accusasse non solo l’uomo pallido venuto di lontano a turbare la sua solitudine, ma anche noi, piccole creature irrequiete, che lo si molestava con la nostra presenza.

Ben vi sta, ben vi sta, bambine insolenti, che avete lasciato sola a casa la mamma, la quale adesso vi piange come in pericolo di vita; così imparerete a non venirmi oltre a rovinare la corteccia coi vostri temperini, od a spogliare il praticello dei miei pignoli.

Accovacciate intorno a una fiammata che Arcangelo alimentava con manciate di aghi secchi del pino, si ascoltava la voce minacciosa; e sembrava che l’acqua salisse, salisse, su dall’orto allo spiazzo, e a momenti penetrasse nel rifugio, per annegarci tutti.

E da mangiare? Arcangelo non aveva che un po’ di pane d’orzo e di patate: qualche cosa si poteva ancora andare a prendere nell’orto, ma con quel diluvio? Eppure un certo senso di sollievo, se non di allegria, rischiarò i piccoli cuori smarriti, quando la donna che ci accompagnava, scuotendosi tutta come passera che va in cerca di cibo per i suoi uccellini, trovò un po’ di farina e sull’asse che serviva di tavola ad Arcangelo la impastò e fece una focaccia: e spazzò la pietra sulla quale ardeva il fuoco, e ce la mise su, rotonda e pura come una grande ostia.

La focaccia cominciava a gonfiarsi, quasi per rallegrarci e soprattutto distrarci con le sue smorfie, quando si sentì nella strada, fra il rombo del temporale, uno squillo di sonagli, che ci sembrò uno scampanìo della notte di Natale.

— È nostro padre, col carrozzino.

Era lui; e davvero che la sua presenza, come quella del padre celeste, parve sedare la tempesta; anche il pino si placò, brontolando, sì, ma con soggezione affettuosa. Tale era l’uomo che arrivava, che anche le cose e gli elementi sentivano l’influsso della sua bontà.

Allora Arcangelo aprì la seconda stanzetta: non dovevano esistere misteri per il suo benefattore. E in un angolo si vide una cesta; e dentro la cesta c’era una lepre coi suoi leprottini, tutti con le orecchie dritte come germogli dorati, tutti con gli occhi aperti come quelli dei bambini insonni.

Grazia Deledda