Statua del Redentore

ORTHOBENESSERE

Statua del Redentore - Monte Ortobene - Nuoro

Il Redentore

La statua del Redentore è un’opera scultorea collocata su una delle cime più elevate del Monte Ortobene (precisamente nella località di “Monte ‘e Bidda”) presso Nuoro, ad un’altezza di 925 metri sul livello del mare. 

Opera dello scultore Vincenzo Jerace, venne eretta nel 1901 in occasione della celebrazione del Giubileo, allorché papa Leone XIII chiese che venissero innalzati monumenti al Cristo Redentore in tutte le regioni d’Italia. La sola statua senza piedistallo è di circa 5 metri di altezza e pesa circa 2 tonnellate. Venne fusa a Napoli e giunse in Sardegna via mare, suddivisa in varie parti che furono trasportate sulla montagna con carri a buoi e quindi assemblate. Benché il panneggio svolazzante, sul cui lembo si regge la figura del Risorto con la croce innalzata, dia un’impressione di aerea leggerezza, l’imponente opera è perfettamente equilibrata e solo dopo 111 anni di esposizione a forti venti e a notevoli escursioni termiche, è stato necessario intervenire con un restauro strutturale.

  • Altezza (solo statua): 520 cm.
  • Altezza complessiva (con piedistallo): circa 7 metri.
  • Peso: circa 2 tonnellate.
  • Materiale: Tradizionalmente definita “bronzea“, le analisi moderne hanno rivelato essere una lega di ottone ad alta resistenza.

Sul palmo della mano benedicente, rivolta verso la città di Nuoro, l’artista fece incidere una dedica alla moglie Luisa, morta durante la realizzazione dell’opera. Così Vincenzo Jerace raccontò: “Sotto la palma della mano aperta, recante il segnacolo della Pace, vi feci incidere: A Luisa Jerace, morta mentre il suo Vincenzo la scolpiva”.  Da quel momento in poi si sarebbe per sempre firmato “Vincenzo L. Jerace”.

Dietro il piede destro del Cristo vi è il volto di un bambino, a Nuoro erroneamente identificato come un angioletto o un diavoletto, e che in realtà, come ebbe a scrivere lo stesso autore, rappresenta l’umanità che al cospetto di Dio è come un bambino.

Il 29 agosto di ogni anno vi si celebra una messa solenne che conclude la sagra del Redentore ricca di fascino soprattutto per la presenza degli abiti tradizionali, canti e balli locali a cui partecipano tutti i paesi della Sardegna.

La difficile realizzazione dell'opera

Dietro la fredda materia metallica si cela una storia di profonda lotta interiore, un travaglio artistico che ha quasi sopraffatto il suo creatore, lo scultore Vincenzo Jerace. La realizzazione della statua era un’impresa colossale, ma fu un dettaglio di appena un metro a trasformarsi in un’ossessione: il volto di Gesù.

Una volta risolte le complesse questioni tecniche e logistiche, Jerace si trovò di fronte a un ostacolo che sembrava insormontabile. Come tradurre in argilla l’essenza divina e umana del Cristo? Come infondere in un metro di materia l’espressione di un messaggio universale? Per sei lunghi mesi, l’artista combatté una battaglia silenziosa nel suo studio. La statua era completa, imponente e definita in ogni sua parte, ma il volto rimaneva un enigmaOgni tentativo era una delusione. Fatto e rifatto innumerevoli volte, quel viso non riusciva mai a incarnare l’ideale che “gli balenava fulgidissimo” nella mente. La frustrazione, i dubbi e lo scoramento presero il sopravvento. Sfinito da un lavoro incessante e tormentoso, Jerace si arrese: abbandonò l’opera, lasciandola incompleta e muta.

Il tempo passò, ma la sfida rimaneva sospesa. Fu nel giorno dell’Ascensione che qualcosa cambiò. Spinto da un impeto irrefrenabile, lo scultore tornò nel suo studio. Salì sulla grande scala di legno che avvolgeva la statua, impugnò un pesante mazzuolo di quercia e, in un atto di furia quasi disperata, si scagliò contro la fredda argilla.

Per mezz’ora, i colpi si susseguirono con “fulminea violenza”, in una “spasmodica pugna” che era insieme distruzione e creazione. Fu un momento di catarsi, un duello febbrile tra l’uomo e la materia. Quando le forze lo abbandonarono, Jerace scese a terra. 

Alzando lo sguardo, vide il miracolo.

Come risvegliandosi da un sogno, l’artista vide che la sua fede e la sua tenacia avevano finalmente trionfato. In quella massa di creta, prima sorda e repellente, era stato trasfuso “qualche cosa di afflato spirituale, di fluido arcano”. Le sue mani febbricitanti avevano finalmente dato forma all’invisibile. La tempesta interiore si era placata.

Il volto del Nazareno, trasfigurato da quella lotta, emanava finalmente quel “lieve senso di quella divinità umanizzata” che lo scultore aveva inseguito per anni. Da quel momento, Jerace non toccò più l’argilla. L’opera era compiuta. 

Una lotta vinta non solo dall’ingegno umano, ma sostenuta, come narra la cronaca, dalla preghiera di chi vedeva in quell’arte il simbolo della redenzione per un intero popolo.

Luisa Jerace

La realizzazione del Redentore è indissolubilmente legata a una profonda tragedia personale che segnò per sempre la vita di Vincenzo Jerace: la morte della moglie, la contessa Luisa Pompeati Jerace, avvenuta nell’aprile del 1901, durante le fasi finali della creazione dell’opera. Ai piedi della formazione rocciosa sulla quale è collocata la statua vi è una lapide dedicata a Luisa. La leggenda narra che morì alla vista della statua, impressionata dalla sua mole.

La tragica scomparsa della moglie dello scultore toccò il cuore di tutti i sardi, che vollero renderle omaggio e alla sua memoria furono dedicate ampie pubblicazioni e celebrazioni in Sardegna.

Sulla lapide, sotto il profilo della donna, si leggono i versi attribuiti a Grazia Deledda:

«Donne nuoresi candidi

vecchi pastori erranti
lavoratori spersi nella vallata aulente
A voi tutti che al cerulo
cadere della sera
volgete gli occhi oranti verso l’immenso altare
dell’Ortobene e al bronzeo
Redentore sorgente
Tra fior di rosee nuvole offrite il vostro cuore
ricordate la tenera
donna che là oltre mare
per voi inspirò l’artefice ed or sciolta dai veli
mortali eletto spirito
oltre i lucenti cieli
offre il fior della preghiera al Redentore»

I Sardi 1905

Nelle lettere e nei suoi scritti, Jerace esprime il senso di vuoto: afferma apertamente che senza l’“anima ardente” di Luisa la statua non avrebbe potuto vedere la luce. Lo scultore considerava la realizzazione dell’opera quasi un atto consolatorio: “quanto dolore mi costa questo Redentore che io modellai per lenire le pene altrui”, scrisse, rimandando a una creazione carica di sofferenza privata. E nel struggente dolore, sul palmo della mano benedicente del Redentore, rivolta verso la città di Nuoro, l’artista fece incidere una dedica alla moglie Luisa. Così Vincenzo Jerace raccontò: “Sotto la palma della mano aperta, recante il segnacolo della Pace, vi feci incidere: A Luisa Jerace, morta mentre il suo Vincenzo la scolpiva“.  Da quel momento in poi si sarebbe per sempre firmato “Vincenzo L. Jerace”.

Il lutto segnò profondamente l’artista, tanto che non partecipò all’inaugurazione ufficiale dell’opera e si recò a Nuoro soltanto un anno dopo.

Ad iniziativa del Vescovo di Nuoro, nel 1902, venne data alle stampe una pubblicazione dedicata: «A Luisa Jerace, nel terzo anniversario della sua seconda vita: I SARDI».

Vi vennero riportate poesie di Grazia Deledda, di Edoardo Sancio, di Agenore Magno, di Giovanni A. Mura, di Salvator Ruju, di Edoardo Peddio, tutte dedicate alla consorte dello scultore.

Se ne riporta la presentazione:

«Chi troverà più la Donna forte, ed assetata di giustizia? Chi mai gusterà più la grazia operosa dell’animo suo invitto?
La morte, che assale di preferenza le anime gagliarde, La ferì ancor giovanissima, mentre il cuore dei Sardi già palpitava caldo di affetto e gratitudine per l’opera benefica di redenzione che s’elevava sull’Ortobene…
La ferì la morte: ma il suo spirito aleggia sempre attorno quel simulacro di pace e di bellezza infinita….
Oh! La eletta creatura vive! Vive della vita degli Angioli…. Vive nel Cielo chiamata a godere il premio della sua fede ardentissima. Vive nei suoi pargoli gentili che un giorno la chiameranno beata….
Vive nel suo dilettissimo Vincenzo; oh! Vive Luisa Jerace e vivrà sempre nel cuore dei Sardi, i quali ricordando il Redentore sull’Ortobene, ricorderanno Colei che tanta parte ebbe nella concezione e realizzazione della monumentale statua, ornamento e decoro della Cattolica Sardegna».

Jerace e gli amici Nuoresi

L’assenza dello scultore Vincenzo Jerace all’inaugurazione del Redentore, il 29 agosto 1901, non fu una scelta, ma una ferita. Il grave lutto familiare gli impedì di assistere al culmine del suo lavoro, un’assenza che egli stesso descrisse con parole cariche di strazio nel suo diario: «Venne il giorno luminoso del vaglio, la tanto sognata festa di Redenzione Sarda: ma questi occhi non la videro»

Fu solo nel 1902, spinto dall’insistenza e dall’affetto degli amici nuoresi, che l’artista trovò la forza di affrontare il pellegrinaggio verso la sua creatura. La sua era una salita carica di timore, il timore di vedere l’opera in una vita ormai “così differente di quella coniugata così felicemente”. Per questo, scelse di compierla in segreto, da solo, quasi per proteggere l’intimità di quell’incontro. 

Giunto sulla cima del Monte Ortobene, si arrampicò tra i rami di un albero in modo da non essere visto da nessuno e tra le fronde poté assistere a uno spettacolo che superava ogni sua aspettativa. Da lì vide l’anima della Sardegna convergere ai piedi della sua statua: un mare di fedeli da Bitti, Gavoi, Dorgali, Oliena, vestiti dei loro “superbi costumi scintillanti al sole”. Osservò la processione guidata dal Vescovo, Monsignor Demartis, il suono delle cornamuse, la devozione della folla prostrata davanti all’altare naturale di granito. In quel momento, nascosto e solo, Jerace ebbe un’epifania artistica e spirituale: comprese che ogni sacrificio era stato ripagato, che attraverso il “povero e muto Simulacro” della sua mano, “uno spiraglio di luce nuova veniva ad illuminare nel tempo e nello spazio, la fervente anima sarda”

Furono proprio gli amici nuoresi a porre fine al suo isolamento: dopo averlo cercato a lungo, lo scovarono tra i rami, lo presero per le braccia e lo condussero al cospetto del Vescovo. Lì, davanti a migliaia di sardi con lo sguardo fisso sul Redentore, ricevette finalmente il riconoscimento pubblico e commosso per un’opera il cui profondo significato gli si era appena rivelato in tutta la sua potenza.

I segreti della materia: non Bronzo, ma Ottone

Anche i monumenti più celebri possono custodire segreti inaspettati, celati non nella storia, ma nella materia stessa di cui sono fatti. Uno di questi riguarda proprio la sua composizione: quella che per tutti è l’opera bronzea del Redentore, in realtà… non è di bronzo.

La rivelazione emerge nel 2012, durante un’importante fase di lavori conservativi e di restauro sulla scultura. Per comprendere a fondo lo stato di salute del monumento, vengono prelevati alcuni campioni metallici, sia dallo sportellino posto sul retro della statua, sia da un frammento di getto di fusione. Le analisi, condotte dal geologo Domenico Poggi del laboratorio Artelab di Roma, hanno dato un esito inequivocabile: la lega utilizzata per la scultura non è bronzo, ma ottone!

Sebbene entrambe siano leghe a base di rame, la differenza è cruciale. L’ottone, per essere definito tale, deve contenere una percentuale di zinco superiore al 25%.

Le analisi sulla statua hanno rilevato una composizione specifica: circa il 63% di rame e una percentuale di zinco molto alta, variabile tra il 27% e il 36%, con piccole quantità di ferro e piombo come alliganti.

La scelta di questo materiale non fu casuale. L’ottone possiede infatti caratteristiche meccaniche più elevate rispetto al bronzo, garantendo una resistenza e una durabilità superiori. Una scelta tecnica probabilmente dettata dalla necessità di garantire alla scultura, esposta agli agenti atmosferici in alta quota, una durabilità e una resistenza eccezionali. Una decisione che, a distanza di decenni, si è rivelata vincente.

Questa scoperta non toglie nulla alla maestosità e al valore del monumento. Al contrario, aggiunge un nuovo, affascinante capitolo alla sua storia, svelandoci la perizia tecnica e la scelta consapevole dei suoi costruttori. La prossima volta che guarderemo il Redentore, potremo farlo con una consapevolezza diversa, apprezzando non solo la sua bellezza artistica, ma anche il segreto metallico che lo rende, se possibile, ancora più unico.

Dentro la statua: un’altra curiosità
Le sorprese non finiscono qui. Le indagini del 2012 hanno confermato anche un altro dettaglio costruttivo di grande interesse: la statua è saldamente vincolata al suo basamento in granito tramite una rotaia ferroviaria, letteralmente “affogata” nel cemento per tutta l’altezza della struttura. Questo sistema di ancoraggio, tanto solido quanto ingegnoso, è ancora oggi in ottime condizioni e svolge perfettamente la sua funzione di tenuta, dimostrando l’avanguardia delle soluzioni tecniche adottate all’epoca. 

La Sagra del Redentore: una tradizione viva

Ogni anno, il 29 agosto, la statua del Redentore diventa il fulcro di una delle feste più sentite e spettacolari della Sardegna. La Sagra del Redentore è un evento che attira migliaia di persone da tutta l’isola e non solo. Il suo momento culminante è la messa solenne celebrata proprio ai piedi del monumento, in uno scenario naturale di incomparabile bellezza. La festa è resa unica dalla sfilata dei gruppi folk, che indossano i magnifici e coloratissimi abiti tradizionali di ogni paese, e dalle esibizioni di canti e balli che animano Nuoro per giorni, mantenendo viva una tradizione che lega indissolubilmente la statua alla sua gente.

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