Vita ed attività dello scultore Vincenzo Jerace

Vincenzo Jerace nacque a Polistena (Reggio Calabria) il 5 aprile 1862. Si formò alla scuola di Saverio Altamura nell’Accademia di Belle Arti di Napoli, ma dette subito prove non comuni d’ingegno e di senso squisito dell’arte, tanto che a soli 18 anni potè esibirsi a Torino nel 1880 alla IV Esposizione Nazionale delle Belle Arti. Si riportanto parte di alcuni articoli pubblicati dall’Osservatore Romano.
«Fu l’inizio di quella che si dice una brillante carriera. D’allora in poi non vi fu manifestazione pubblica d’arte — esposizioni, mostre, concorsi — a cui Vincenzo Jerace, molte volte espressamente invitato, non si presentasse.
Cosi opere sue furono esposte a Londra, Anversa, Dresda, Parigi, Venezia.

Nell’esposizione d’arte sacra di Torino del 1888 riportò la medaglia d’oro per un candelabro pasquale in bronzo, che è custodito, ora, nel tesoro della Basilica di Pompei.
Fu vincitore nel concorso per un grande gruppo in marmo «Sinite par- vulos ad me venite», eseguito jper il Parco Monumentale di Los Angeles in California.
Per la centenaria ricorrenza dell’anno Santo del 1900, egli modellò e fuse in bronzo la statua colossale del Redentore, collocata sulla montagna del- l’Ortobene in Sardegna, e per essa fu insignito da Leone XIII della Croce di Benemerenza.
Dodici dei migliori fra i monumenti eretti in Italia alla memoria dei caduti in guerra tra il 1915 e il 1918 furono progettati ed eseguiti da lui. Si dilettò e produsse con successo in sanguigna, e nella prima esposizione nazionale di Bolzano nel 1923 espose ed ottenne la medaglia d’oro.

Il costante impegno nella ricerca lo portò ad esprimersi anche nella ceramica, ispirandosi al mondo microscopico degli animali marini. Furono infatti i suoi studi all’acquario di Napoli, nel 1887, a rivelargli attraverso il microscopio quelle piccole forme di vita sottomarina «le radiolari», che tradusse in vasi originalissimi e singolari, che ornano ville e scaloni (Palazzo Reale a Napoli, scala del Duca di Sirignano a Napoli, Villa Pierce a Napoli, e Villa Imperato a Castellamare di Stabia, concepita da lui anche architettonicamente, puro esemplare di stile liberty).

Maestro paziente, indulgente e sapiente, si dedicava con passione alla formazione dei giovani artisti, li seguiva e li confortava nella loro carriera e nell’immancabili contrasti della vita.

Di animo affettuoso e buono, sentiva e praticava la sua religione senza umani rispetti. Di pochi, come di lui, si può dire che non mise mai l’arte sua al servizio della mondanità e di quei facili costumi che tradiscono la missione educatrice delle arti belle e del sapere.
Jerace ebbe anche un’altra passione a cui dedicò gran parte della sua genialità d’artista: la lavorazione, in colore monocromo o sanguigna, di ritratti e di composizioni varie, che costituiscono un ciclo fra i più interessanti della sua cospicua produzione artistica.
Anche qui, innovatore e unico maestro in tal genere di pittura, seppe dare il tocco inconfondibile della sua mano d’artefice ai molti ritratti e creando sanguine di delicata bellezza; in tutte vigore di disegno, luminosità, stile, raffinato senso estetico, spiritualità di concezione.

Per questa arte lo storico imparziale — sottolineava l’Osservatore Romano — non mancherà di segnalare Vincenzo Jerace (nota 9).
Sia pace all’anima sua e sia concesso alla sua memoria quel tributo di affetto e di gratitudine a cui gli danno diritto le opere compiute per il culto della verità e della bellezza».
Lo scultore morì a Roma il 22 maggio 1947.


Opere principali di scultura
La statua in bronzo il «Redentore» a Nuoro in Sardegna del 1901; gruppo di marmo «Sinite Parvulos» a Los Angeles in California; i bassorilievi «Fauna e Flora» nel palazzo del Principe di Sirignano a Napoli; busto a Pio X all’Arcadia di Roma; numerosi Monumenti ai Caduti della guerra 1915-18.
Pitture e afreschi a sanguina
Affreschi nel salone del Duca di Guardia Lomarda di Napoli; la «Lelle» nella Pinacoteca di Capodimonte a Napoli; il «Rubbi» nel palazzo del governo di Bolzano; «Evellina Oddone» a Cettinie in Montenegro.
Fra le pitture «L’angelo del Dolore», «Aurora Italica», la «Calabrese», la «Matelda», il «Plenilunio», la «Pace», la «Preghiera».
Illustrò gli «Amori degli Angioli» dal poema inglese di T. Moore.
Espose con successo ad Anversa nel 1894, a Barcellona nel 1896, a Londra nel 1888 e nel 1910 a Parigi ed a Dresda. Partecipò alla Triennale a Roma, ed alla Biennale di Venezia e di Milano.
Dal diario di Vincenzo Jerace:
«13-8-1901 Napoli – Vado a Roma a preparare un nastro del colore Tuo prediletto, verde, (l’artista «parlava della moglie Luisa come fosse viva») con la scritta: «alla Sardegna redenta in Cristo 1900 – Luisa Jerace», nastro che i bambini nostri mandano a Nuoro nell’intenzione Tua e perché almeno in questo modo desidero che nell’inaugurazione del Redentore fissata pel 29, la Tua persona, vi aleggi intorno e tutti possano leggere il santo nome Tuo sfolgorante, dal nastro sulla croce del Redentore.
La corona arrivò a Nuoro in ritardo.
7-9-1901 – Napoli. Da Nuoro continuano le rimostranze di contentezza per il Redentore che Tu mi hai ispirato.
Ma ancora non possono aver capito i Sardi che devono a Te, non a me, quel Simulacro che senza l’anima ardente di Luisa Jerace io non avrei potuto realizzare.
Ora dovrei parlare della Statua, ma non posso, piango, segno evidente che Vincenzo Jerace chiese ed ottenne dall’alto l’ispirazione del Redentore e fece un capolavoro.
Molti giornali parlano con entusiasmo per il sentimento che in loro spira la Statua. È un risorgere di vita nuova nell’isola battesimata dalla Tua morte.
12-9-1901 – Roma. Un giornale della Sardegna porta l’omaggio da Te reso colla targa e il nastro del Redentore, omaggio che strappò lacrime e preghiere in quanti lo videro.
1-7-1902 – Roma. Dalla Sardegna mi comunicano la proposta di intitolare a Luisa Jerace la strada che da Nuoro va all’Ortobene: proposta gentile quanto giusta.
23-7-1902 – Roma. Mi dispongo a partire, vorrei qualcosa di personale di Te, per andare in Sardegna solo a baciare quel Redentore che Tu non hai veduto inaugurato.
4-8-1902 – Arrivo all’insaputa di tutti a Nuoro. Vado solo a vedere il carissimo amico nostro G.A. Mura: incontro commovente.
7-    8-1902    – Salgo senza alcuna compagnia sull’Ortobene; giunto allo zoccolo casco in ginocchio, penso a Te, ai nostri figlioli, a quanto dolore mi costa questo Redentore che io modellai per lenire le pene altrui.
8-    8-1902    – Ritorno dal pellegrinaggio di tutti i fedeli sardi in testa l’arcivescovo di Cagliari Balestra; nell’Ortobene sono stato molto festeggiato.
17-8-1902 – Grazia Deledda mi scrive: «Guardai da lontano il Suo Redentore, poi salii fino alla piattaforma dove il vento rombava spezzandosi contro la Statua e pensai a Lei ed alla Sua Luisa, e vissi l’idea profondamente cristiana che animò la Sua opera d’arte, ed ho sentito la fede dell’artista contro la quale, come contro il bronzo che l’ha incarnata, si spezza senza muoverla, il vento doloroso della vita.
Ho poi riveduto e rivedo spesso il monumento.
Ella ha fatto opera di pietà che durerà come le montagne sulle quali spande la sua divina dolcezza.
Passeranno gli anni e gli anni, una leggenda d’amore e di pietà sorgerà fra questi popoli primitivi e vibrerà forse nei canti popolari e chi sa?
Se è vero che il nostro spirito sopravive e va al di là del vento della vita, qualche sera di luna come quella di ieri sera, un convegno d’anime di poeti sardi ricorderà lo spirito dell’artista e della sua diletta, e farà ghirlanda al suo monumento, il cui simbolo d’infinita pietà e amore avrà finalmente conquistato la rude anima sarda».



«Viveva a Nuoro un sottufficiale insegnante di educazione fisica, il mio caro fratello Marino, che aveva stretto affettuosa amicizia con un intelligente e colto avvocato nuorese Francesco Mura: esso faceva parte del Comitato locale ed a mezzo del detto fratello mio volle interpellarmi se era disposto eseguire la progettata decorazione dell’Ortobene con una modesta statua, perché i mezzi pecuniari venendo dalle oblazioni erano ristrettissimi. Accettai l’arduo cimento nell’entusiasmo degli anni primaverili e della mia fervida fede religiosa.

Tanto più m’arrideva l’incarico in quanto questo era il primo lavoro di una certa entità tecnica e morale in cui mi era concessa la gioia di potermi manifestare, in quel poco che i pochi studi e madre natura, avevano elargito alla mia mano inesperta, al mio spirito incolto. E ricordo che appunto in quel periodo il direttore della Gazzetta degli Artisti di Venezia, aveva indetto a breve scadenza una mostra della testa di Gesù ed io che dovevo trattare quel soggetto abissale e formidabile, gli scrissi una lettera di protesta che pubblicò volentieri, nella quale dicevo che se al sommo Leonardo non bastarono in cinque anni le forze a dare forma alla Divinità Incarnata e lasciò il viso del Gesù della Cena non finito, tanto più a tutti gli altri miseri manovali doveva riuscire impossibile farlo degnamente nel brevissimo tempo da lui fissato.
Difatti l’esito della sua mostra è stato di amara delusione, e purtroppo della conferma della mia protesta.
Plasmato il bozzetto che ancora conservo sciupato dal tempo, ricordo che lo mandai a Nuoro e suscitò unanime consenso (il diario riporta la data del 5 settembre 1938).
Fra le poesie che mi pervennero vi è il seguente sonetto:
«Sulla scoscesa inaccessibil vetta del selvoso Ortobene
ove da ogni zolla e d’ogni stretta lugubre d’un ucciso esce la voce,
scende lieve dal cielo e mite si posa, si posa
ove la vendetta e l’odio fraterno maturò aspra e atroce;
scende lieve dal cielo e si posa sul suolo sardo insanguinato
per sì lunga stagione, ci guarda e tace
mostrando a tutti la benedetta immagin della croce,
ma la destra protesa e il dolce sguardo
sul suolo ancora insanguinato
pare che dican:
Pace o figli Pace».

Io ignoravo il fondo etico-religioso dell’anima sarda, e, dopo la lettura del sonetto suindicato mi si apersero gli occhi in una più grande e profonda visione del compito che s’imponeva alla missione educativa e redentrice del mio Gesù e quindi le più estese ed insormontabili difficoltà a superarle e tradurle in atto tangibile ed espressione emotiva, se non perfette, almeno capace di trasformare la pecaminosa e da tutti maledetta montagna, in santuario.
Santuario di preghiere, di pace, di amoroso affratellamento sardo ed umano.
Ricordo infatti che, in detta montagna, si verificavano i più orrendi delitti, i più atroci misfatti, essendo essa di natura aspra e selvaggia e ben disposta agli agguati, alle rapine, ed ad ogni specie di nequizie umana.
Se in tutto il mondo la vendetta è ritenuta un’atto incivile, degradante ed antireligioso, in Sardegna invece, veniva tramandato, da padre in figlio, come titolo di nobiltà.
Quando però facevo l’esame del vasto problema d’affrontare, di ciò che fino allora avevano prodotto i grandi maestri di tutti i secoli e di tutte le nazioni, delle povere, poverissime risorse mie tecniche ed intellettive, e la imperiosa assoluta necessità di dare alla Sardegna agnostica un simulacro divino, che trasformasse gli istinti selvaggi e brutali latenti nel suo cuore, l’intelletto mio restava smarrito.
Ma la fede, motricSfsuprema d’ogni mia idealità, d’ogni mia azione, mi spingeva con un ardimento così gagliardo da fare esca d’ogni dubbio e guardare con occhio calmo e sereno ad ogni depressione, ad ogni contrarietà, ad ogni sconforto.
Fu in quel momento di pugna interiore che preso un pezzo d’argilla, plasmai il nuovo bozzetto esecutivo, inalberando, molto più in alto, nel braccio teso della statua, il segno di nostra redenzione, segnandovi «regnum meum» e facendo scendere dall’alto dei cieli il Portatore di Pace, non più poggiato coi piedi sull’arma della Sardegna, ma staccato dal suolo e reggen- tesi su di esso col solo lembo del suo mantello, nella di cui piega estrema è avvolto un viso di pargolo, sorridente, e che rappresenta l’umanità sempre bambina, al cospetto di Gesù (nota 10).

Ed allora non esitai più e dato uno sguardo all’eternità, secondo il veridico ed utile avviso salessiano, prima di iniziare, raccolte tutte le energie dell’anima e del corpo giovanile nel dominio della fede, chiusi gli occhi e, spinta la macchina a tutto vapore, attaccai ferro e fuoco l’arduo cimento plastico.
Mi dimenai, come leone insaziabile, battendomi incessantemente nella materia che a risponder è sorda e mentre il colosso di sette metri era ultimato, la testa, per quanto tentata e ritentata, con ostinata espugnazione, con accaniti assalti di vincerla, non vi era verso, non forza, capace di domarla, ed è stato giuoco forza, lasciarla dormire.
Dimenticata per mesi e mesi.
Dimenticata finché non arrivasse un soffio più che sovrumano e divino a vivificarlo in modo radicalmente differente, di come aveva soffiato in tutti gli altri volti di Gesù dipinto o scolpito, dagli altri artefici del passato!
A me ripugnava, intimamente, non solo il tener presente i capolavori dei sommi maestri che mi precedettero, ma anche il prendere dalle loro mirabili effigie la più piccola spinta ispirativa.
Una certa preoccupazione, questa pure è bene confessarla, anzi uno sdegnoso pregiudizio l’ho avuto sempre da bambino ad oggi, quello di bere sempre alla piccola ma purissima sorgiva dell’anima mia, non guardando mai nelle mie inspirazioni, a scuole, ad epoche, a tendenze ed a stili e tanto meno alle maniere o contingenze tecniche e formologiche dei grandi maestri, da me passionatamente amati, studiati e venerati.
E se qualche volta per disgrazia mi accorsi, dopo severo esame autocritico, che in quel che facevo vi era, sia pur lontanamente lieve riscontro ideale, formale o stilistico, rompevo e distruggevo di sana pianta, come tante volte capitato.
Mi ero perciò risoluto, inflessibilmente: il volto del mio Cristo dovea essere di conio assolutamente novatore o rinunziare a farlo.
Passavano così giorni e settimane di crucciosa attesa e la mia piccola mente navigava nelle tenebre, ricordando anche come il più profondo iconografo di Gesù, dopo cinque anni, lasciò incompleto il volto divino del Cenacolo, perché nè nelle forme umane, nè in quelle ideali trovò alcun aiuto a dare fisionomia alla divinità incarnata.
Era la festa dell’Ascensione e, dopo pregato in Chiesa, invece di rincasare, filai trafilato allo studio solitario e silenzioso di via Amedeo 141 in Napoli; apersi la porta e preso il grosso mazzolo di quercia di circa cinque chili, ascesi svelto e leggero, come alipede, i gradoni dell’alta scalea.

In febbrile convulso, come infiammato da forze e spiriti estranei all’esser mio, batto, ribatto colpi profondi, sonori, in tutti i piani dell’informe involucro argilloso, poi butto via il mazzolo ed affondo le dita, feree come l’artiglio d’aquila.
Dopo un’ora di pugna scendo, d’un balzo dalla scala a terra, alzo gli occhi verso il sospirato e tanto sudato viso ed un senso di intima gioia pervase tutta l’anima mia, lasciandomi estatico e pauroso, come chi riapre gli occhi, dopo un sogno d’ineffabile dolcezza e godimento.
Riavutomi dalla scossa emotiva e ripresi i sensi, mi balenò nella mente che, data la mia impotenza, qualche Spirito invisibile e sovrumano aveva mosso queste povere e fragili dita, restate tanto tempo incapaci nella più assoluta timidità d’agire, aveva infuso ad esse la virtù che mancava, al supremo cimento.
E lo Spirito realmente operò propizio da vicino, da lontano, in molti modi mirabili e misteriosamente benefici, alla realizzazione del divin Simulacro, e più d’uno di quelli prodigi son noti e cari alle anime sensitive dell’isola canora ed altri, se avrò vita, spero di rivelare in qualche episodio.
Intanto, dopo l’inatteso avvento di quella giornata memorabile, rinchiusi lo studio senza toccare né rifinire in alcun dettaglio il volto di Gesù, restando così intatta, come era nata in quell’ora d’allucinato lavoro, l’opera mia.
La quale, se aveva esaurito tutte le energie che bene o male avevano momentaneamente dato tregua alla mia lunga veglia esasperante, non poteva ancora farmi il rendiconto esatto della impressione che avrebbe fatto in cima alla montagna insanguinata, nel giorno dell’inaugurazione, ed a quanti l’avrebbero veduta, presenti e future generazioni.




Venne il giorno luminoso del vaglio, la tanto sognata festa di Redenzione Sarda: ma questi occhi non la videro.
La più grande sventura che poteva straziarli, li faceva lacrimare in un dolore senza nome…
La creatura che il Creatore stesso mi aveva immeritatamente regalata, era scomparsa… scomparsa, mentre il fonditore aveva fuso, nell’eterno bronzo, la statua, già santificata dalle sue intime preci… Sotto la palma della mano aperta, recante il segnacolo della Pace,. vi feci indicare: «A Luisa Jerace, morta mentre il suo Vicenzo la scolpiva».
Ma già durante le tappe faticose, una Commissione composta da dieci persone, venne da Nuoro, capitanata da Francesco Mura, per vedere la statua, già ultimata in creta.
Stettero circa mezz’ora a guardarla, girando, mirando, cauti, taciturni e come trasecolati il colosso, che riempiva tutto lo spazio del grande studio e poi si congedarono, per ripartire.

Ma uno della Commissione, tornato indietro, andò sotto il gigante e collocato l’ombrello — era d’inverno — sotto la pianta del piede sinistro, disse: «Professore, io non so dirle nulla dell’emozione provata coi compagni innanzi l’opera compiuta per la nostra Sardegna.
Al mio rientro a Nuoro mostrerò questo ombrello al mio Vescovo Demartis e gli dirò: Monsignore, ecco la misura del piede del Redentore: forse così si formerà un’idea della grandezza della Statua, che l’Isola tutta è ansiosa di vedere».
Ma tutte le lodi, tutte le critiche e le tante poesie dedicatemi, per quanto ispirate, elevate e piene di benevole simpatia per il lavoro svolto, non potevano, nè dovevano colmare l’inquieta ansietà che provavo di constatare «de visu» l’impressione che il Monumento faceva non sui dotti, i letterati, i poeti ed i competenti, invidualmente, ma sulle folle, sul pubblico commisto di tutti i ceti, di tutte le intelligenze, per le quali mi ero affaticato, sudato, affannato ed annichilito tutto me stesso.
E tale momento arrivò, quando, nel 1902, facendo sforzo per la ferita ancora aperta dalla sventura subita, gli amici mi vollero a Nuoro.
Ospitato affettuosamente in casa Mura, trepidai più giorni all’idea di rivedere il mio Cristo in un mondo e in una vita così differente di quella, coniugata così felicemente, in cui lo avevo ideato e scolpito.
Ma gli amici insistettero e fissarono il giorno dell’8 agosto 1902 per condurmi… all’Ortobene.
Mi prepararono il cavallo con l’uomo d’accompagnamento, mentre loro mi precedevano.
A metà strada sbalzo dalla sella a terra e mandato via l’uomo con la vettura, mi avviai solo per l’impervia, scoscesa, aspra montagna.
Camminai senza incontrare anima viva, e sperdei la via: fermatomi alquanto sgomento a causa dell’aspetto tetro e selvaggio del monte, restai più tempo smarrito e trasognato.
Finalmente scorgo un gruppo di contadini, li fermo e chiedo: dov’è Gesù dell’Ortobene?
Ed una giovane contadina sale su d’un dirupo e mi addita quanto bramavo scorgere.

Un palpito mi stringe il cuore, procedo lentamente e, dopo mezz’ora di cammino, eccomi al cospetto del religioso Simulacro.
Cercai un albero solitario vicino ad esso e mi accavallai fra i suoi rami fronzuti, in modo da vedere tutto e non essere visto da nessuno.
Da quell’invisibile osservatorio si spalancò ai miei occhi uno spettacolo indescrivibile.
Sull’immenso altopiano sbucavano a frotte, a ciurme, a centinaia, a migliaia i figli dell’Isola canora, nei loro superbi costumi scintillanti al sole estivo d’oro e d’argento (nota 11).
Figli di Bitti, di Gavoi, di Dorgali, di Orune, di Oliena, madri e spose di una bellezza statuaria, avvolte il viso virile e bronzato nelle loro bende di ebano, partite da Nuoro con in testa il Vescovo, a piedi, arrivano salmodiando, seguite dalle cornamuse, in flebili cadenze, sulla cima fatidica.

Mentre il mare dei fedeli e dei pellegrini ondeggiava nei mille e mille iridescenti colori dei costumi originalissimi, semi orientali, ed un piggia piggia s’accalcava intorno alla sacra mensa non sculta da mano umana ma fatta d’un sol blocco granitico naturale e collocato ai piedi del Princeps Pacis, il venerando Presule mons. Demartis, in cappa magna, alzò la sacra ostia.
Tutta la marea si abbassò prosternata profondamente sulla nuda terra, mentre nell’azzurro lontano, lontano, la cima del Gennargentu si dorava dei raggi del sole, che da quel momento, apriva la nuova era di pace e di fratellanza sarda.
Allora ho constatato, creduto, che tutte le ansie, gli sforzi, le fatiche ed i sacrifici sostenuti per la realizzazione di quell’idea, non furono inutili nè perduti, ma avevano in qualche modo imperituro e fruttuoso raggiunto lo scopo, per il quale li avevo affrontati.
Avevo capito che traverso il povero e muto Simulacro della mia mano, uno spiraglio di luce nuova veniva ad illuminare nel tempo e nello spazio, la fervente anima sarda.

Gli amici nuoresi, dopo vane ricerche, mi scovarono: mi presero dall’albero per le braccia, e mi trascinarono alla cima benedetta.
Il Vescovo, alla presenza di migliaia d’occhi fissi al Redentore, parlò commosso d’ammirazione dell’opera mia».

(nota 9) L’artista firmava sia con il nome di Vincenzo o Vicenzo: dopo la scomparsa della consorte, in ricordo, vi aveva aggiunto una «L». Dopo il 1901 le opere risultavano così firmate: Vicenzo L. Jerace.
(nota 10) Fino ad oggi il pargolo, per alcuni era considerato un «angelo», per altri un «diavoletto»: «parese su diauleddu de su Redentore».
(nota 11) La Festa del Redentore, in quell’anno, si era svolta l’8 agosto 1902.

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